Declino (da ‘Sguardi Familiari’ di Luca D’Ascia)

Un brutto condor con fragile volo
si torce nella morsa dell’abisso.
Strappa il polmone tosse secca e dura
come foglio di carta dal quaderno.
Il soffio insulso e il peso della testa
invocano la neve fresca e pura.
Succhiando le mammelle della morte
ripenso con tristezza alle montagne,
le creste solitarie e i precipizi
toccati da altro corpo, da altre mani
perdute nel silenzio del ricordo.
Era giovane allora e ti portava
fiducioso nel cavo della mano
l’idolo infranto dell´ infanzia antica.
Era tua madre una montagna forte,
ossa di rocce rosse, pini scuri,
lo sguardo fisso alla muraglia immensa.
Corsa vertiginosa sotto i sassi,
Becca di Guin, immobile rovina,
gelida forza di notte remota.
Eri la corda all’orlo dell’abisso,
l’orrore si scioglieva nella calma,
rimbalzava la freccia dell’angoscia
sulla corazza fragile del tempo.
Ora trascini grigi i giorni stanchi
fra gente sciocca e colli senza slancio,
sorda alla voce della Becca Grande,
Apu d’infanzia, guardiana del sogno,
tu che invocavi tomba vasta e pura
ai margini sereni del Sudario
e aspettavi il ritorno alla natura
con l’anima selvaggia della guida.
Tendo l’orecchio nello spazio azzurro
ritorto e strano come una conchiglia:
tu mi parli e non sento la tua voce
sepolta dalla cenere degli anni.
La tua solidità si fece assenza,
fui dubbio ed onda, tu certezza e rupe.
Con altra donna ormai, con altro vello
sospeso tra il declino e nuova vita,
calmo accarezzo i giorni sordi e duri.
Muore il bambino sempre e il tempo tace.

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